ALBERTO PERUFFO

ALBERTO PERUFFO

PORTRAITS

Perché le montagne…
In realtà attingo alla natura fisica del luogo esposto, visibile da cui si possono lanciare messaggi.
I segnali li lanci da posti da dove ti possono vedere. Il linguaggio del fumo è uno dei più antichi che si conoscano. Salire sulle cime vuol dire salire su un posto alto da cui poter comunicare con le persone. Il mio segnale in quel caso riguardava la mia indignazione per quello che stava accadendo in un altro luogo del mondo, Tibet e Cina.
Aveva anche un significato metaforico perché sapevamo che stavano salendo l’Everest con la fiaccola olimpica, una montagna simbolo, dunque per me era importante far scendere dall’Everest quel segnale di ipocrisia, farlo meditare e metabolizzare dalle altre montagne e farlo riemergere con il colore della vergogna e indignazione quindi è stata una scelta di natura fisica. Per salire bisogna per forza di cose faticare in montagna, non è una scelta necessaria per me ma salire una montagna facendo fatica è affacciarsi sul proprio limite, il bello della cima è quello: vedi il limite tuo che ti sta di fronte sei in cerca di una nuova visione che con il segnale comunichi ad altri. Se lo fai, dimostri anche un impegno con rischio tuo personale, per esempio per la prima accensione abbiamo salito il Cervino in condizioni difficili, metti a repentaglio la tua natura per dire qualcosa. Non è l’azione intellettuale chiusa in un libro ma è esposta in tutti i sensi.
Io ho la fortuna di praticare, essere esperto di arrampicata. Chi meglio di chi sa raggiungere un luogo alto perché lo fa per altri motivi per passione etc ha la possibilità di mandare un messaggio del genere? Non ha che fare con il retaggio dell’alpinismo classicamente inteso ma con quello piuttosto di confrontarsi con i propri limiti per far vedere una cosa.
Perché il fumogeno…
Il fumogeno non è stata una scelta premeditata nel suo significato simbolico, ci ho pensato dopo o nel mentre. Addirittura in quel periodo mi arrivarono molte mail anche dagli Stati Uniti ed una importante da un nativo americano che mi scrisse a riguardo. L’immagine più forte che ho utilizzato per lanciare tutto quanto la prima volta era il cervino con le 2 montagne gemelle che ci sono dietro che iniettavano il fumo nel cielo. La cosa curiosa era che quel fumo io l’avevo preso da un altro evento, dalle torri gemelle, rielaborato e colorato di rosso e messo in cima alle montagne ma non c’era premeditazione. Perché ho scelto il fumo?
Quando mi è venuta la voglia di mostrare un segno di vicinanza e ribellione rispetto a quello che stava accadendo. Il fatto di aver fatto montagna ha lavorato nel substrato dell’idea per poi farla emergere. Loro stavano violando la montagna quindi agisco anche io in montagna. Perché ho scelto il fumo? Perché volevo un linguaggio e una pratica accessibile a tutti, che con un impegno libero tutti potessero realizzarlo. C’è stata gente che ha salito anche solo una sedia. Le persone soprattutto nella seconda accensione han salito di tutto. L’importante era l’elemento comune del fumogeno rosso, colore dell’indignazione, della vergogna della ribellione e del sangue versato dalla popolazione tibetana. Ero stato in tibet e ho visto cose piuttosto inquietanti, non è stato un viaggio semplice e senza dolore, non sono riuscito a distaccarmi dal salire la montagna senza sapere, cercar di capire quello che han vissuto là. Comunque il linguaggio più semplice e accessibile e più visibile trovo tutt’oggi che possa essere il fumo che ha anche la bellezza di dissolversi.
Abbiamo poi proseguito con altre performance con il fumo, alcune anche al limite della legalità.
Capitò nel 2008 di far la più bella o incisiva performance in città: Il triste Palladio fumante, feci parlare la statua col fumo feci indignare il Palladio per quello che stava succedendo con la base militare Dal Molin a Vicenza. E lì riuscii a coinvolgere molte persone, ho sempre strutturato bene l’azione, dotandola di pensiero e relazione con tutte le persone. Ci siam trovati in tanti in piazza. Io avevo con me una ventina di fumogeni da 3 minuti belli potenti, li ho consegnati e spiegato come usarli e poi ho dato il via all’accensione.

Cosa capitò?

Era una serata d’estate piuttosto umida, bassa pressione, l’aria non circolava bene e in due minuti tutta Piazza dei Signori è diventata rossarossarossa e sinceramente mi son sentito a disagio anche io perché aveva scavalcato il limite che avevo concepito nella mia previsione del fatto. Il fumo si è incanalato dietro Piazzetta Palladio dove c’era un ristorante con tutta la gente per bene che stava cenando sai “la cenetta in piazza dei signori”, sommersi dal fumo, più di qualcuno infastidito e mi arriva lì, tutto scalpitante e infastidito, un politico che la pensava all’opposto di me e ha cominciato a minacciarmi: ‘tu queste cose non puoi farle a Vicenza chiamo la polizia!’
E subito anche io ho avuto timore, pensavo ‘stavolta mi arrestano’ ma ho dato una risposta serena e spiazzante: ‘chiama chi vuoi tanto il tempo che loro arrivano il fumo sarà già sparito e non ci sarà nessuna prova’. Infatti in due minuti il fumo era sparito e arrivavano i carabinieri e la polizia.
Il fumo c’è dura poco e scompare rimane nella memoria di chi è presente come momento, ti elimina il problema anche della mercificazione e resta come traccia, valore indelebile, memoria di chi l’ha fatto e di chi l’ha visto e il passaparola è sufficiente per creare immaginario, riflessione e qualche nuova esperienza. Poi lo puoi portare con facilità, agilità in vari luoghi.
Ho fatto un’altra performance in Appennino per presentare The wandering cemetery, per portar testimonianza di questa apparizione che era stata fatta e avevo fatto passare per operazione artistica ma era un’operazione civile fatta tramite l’arte. A quel tempo ero proiettato in avanti perché stavo progettando le montagne fumanti e mi avevano chiamato a questa specie di incontro internazionale di artisti rinchiusi in un recinto e sono andato con in mente le montagne fumanti e ho avuto l’idea brillante di fare Wandering cemetery incontra le Tristi montagne fumanti. Due opere che si incontrano. Alla curatrice dell’evento avevo solo detto che per la mia opera avrei avuto bisogno della luce del tramonto. Son andato là con 2 amici, una croce, una maschera e un set di fumogeni. Il giorno prima l’ho passato a esplorare tutta la zona intorno e volevo rompere lo schema che era evidente dell’artista dentro al recinto e magari iniettar dentro anche elementi di tutti questi artisti che si autocelebravano perché alla fine era un’arte anche raffinata e di ricerca ma non s a che pro. Ho chiesto a un pianista che mi suonasse una base di piano. È stato bravissimo tra l’altro. Ho creato una specie di scena in mezzo alla gente nel giardino. La curatrice mi ha chiesto puntualità e voleva sapere cosa avremmo fatto. Io le ho detto ‘non si preoccupi sarò precisissimo alle ore 8.05 ma non le dico dove sarò. Lei vedrà la performance dal luogo dove aveva stabilito che io operassi’.
I miei amici erano là pianoforte, croce, maschera. Una mia amica prende la croce e la porta vicina alla ringhiera che dava sulla valle in mezzo all’Appennino e tutti vennero portati a guardare in là. A un certo punto io ero dall’altra parte della valle a 200 m dove c’era una falesia di roccia. Con un ragazzo del luogo ho attraversato un campo di sorgo grandissimo e poi son arrivato ad affacciarmi sulla scogliera e quando lla ragazza con la maschera e la croce si è affacciata, abbiamo fatto deflagrare i fumogeni ed è partita una fumogenata incredibile e tutti guardavano l’altrove, quello che succedeva fuori dal recinto. Il fumo è andato in giù perfettamente sulla parete di roccia che sembrava piangesse. Tre minuti di fumo col piano che lo accompagnava. Ho portato il loro sguardo fuori. A me pesava quella chiusura elitaria. Si entrava solo su invito, il cancello era chiuso a chiave nessun altro poteva entrare, io li ho portati fuori. Con il fumo fai parlare un elemento che è altro da te e non sai cosa farà, come si comporterà. Sul Summano abbiamo fatto due accensioni ed in una il fumo ci si è rivoltato contro e abbiamo dovuto ripararci. _ Giulio Malfer _ Claudia Avventi