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LIBRO

Il progetto MAP nato da un’idea di Piero Cavagna, Giulio Malfer e Giancarlo Stefanati, si è concretizzato in un libro di formato giornale su carta usomano. Le copie stampate sono state 25.000, mille cinquecento distribuite ad L’Aquila, le altre allegate all’uscita di un quotidiano trentino.

Piero Cavagna ha realizzato un reportage d’arte, che scansiona cronologicamente le fasi più importanti dell’accaduto. La distruzione del terremoto, i primi soccorsi, la costruzione dei moduli abitativi da parte dei trentini, le perplessità del domani. Nella parte centrale del libro uno scritto di Giustino Parisse , per poi continuare con il lavoro artistico di Giulio Malfer, un lavoro sulla memoria, sul ricordo che i soccorritori hanno lasciato nelle persone di Onna e Villa Sant’Angelo.

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“Ho sentito parlare molte volte di quanto il Trentino avesse fatto per l’Abruzzo dopo il terremoto del 2009. Da molti dei più di 2500 volontari che ci hanno lavorato per più di un anno, da tante persone che nelle zone colpite dal sisma erano passate, per lavoro, impegni o vacanza. Tutti – questa la sorpresa- mi hanno raccontato l’orgoglio di essersi sentiti e sentirsi trentini davanti a tutto quello che le tante espressioni della società civile che avevano partecipatoalla “missione Abruzzo” erano riuscite a realizzare. Ci stiamo abituando a pensare e agire soltanto in emergenza: ci interessano le cose quando succedono. Poi, una volta appagata la nostra curiosità e avute le risposte sufficienti a colmare i bisogni effimeri delle nostre emozioni, cerchiamo altri coinvolgimenti, altri bicchieri d’acqua in cui nuotare e perderci.

Con un amico fotografo, Giulio Malfer, ho rifatto lo stesso percorso che avevo già fatto, più di tre anni e mezzo fa, con la prima colonna d’intervento della Protezione civile trentina partita immediatamente, all’alba del 6 aprile. L‘idea era di guardare tra le pieghe del dopo terremoto a 3 anni e mezzo di distanza: cosa fosse questo orgoglio di cui andare fieri come trentini, cosa fosse quello che era stato fatto e rimaneva, che ricordo avessero sulla pelle le persone colpite dal sisma e che ricordo portassero nel cuore del Trentino e dei suoi volontari. Volevamo capire se fossero state date risposte adeguate alle grandi speranze di chi si era visto un’esistenza stravolta dalla tragedia e se esistesse ancora la capacità di coltivare sogni quando ogni aspettativa fosse andata delusa. Abbiamo dormito in una bella casetta del M.A.P. di Villa Sant’Angelo, 94 Moduli Abitativi Provvisori delle 400 costruzioni realizzate con il contributo dell’intera comunità trentina e consegnati dalla Provincia autonoma di Trento dopo soli sei mesi dal sisma.

Il M.A.P. è realtà strana, una sorta di entità extraterritoriale: ci sei, precario, con un senso definitivo. L’acronimo porta in sè due estremi di un paradosso, due letture agli antipodi: Moduli Abitativi Provvisori – Moduli Abitativi Permanenti. Le casette trentine sono state fatte molto bene, dopo tre anni sembrano appena consegnate, sul tetto hanno addiruttura anche i coppi, in ognuna c’è la televisione. La gente ci vive contenta, è una popolazione prevalentemte anziana, esigenze al minimo: il M.A.P. per loro è quasi meglio di prima: si spende meno, gli spazi sono più funzionali, meno fatica per pulizie e gestione. Si esce molto meno di casa. Costruite le abitazioni non ci si è preoccupati, subito, a ricostruire la comunità. Onna è stata l’eccezione, lì la gente ha tenuto stretta coi denti un’idea di stare insieme: gli stessi vicini di prima, se possibile gli stessi luoghi di ritrovo ricostruiti, la chiesa, una piazza dove incontrarsi la sera d’estate a parlare riconoscendosi e ritrovandosi, un antico che non vuole essere condizionato dal nuovo.

I paesi protagonisti del prima sono diventati lo sfondo del dopo. Meglio, sono le loro rovine a fare da scena, uguali dappertutto: ad Onna come a L’Aquila, a Tempera come a Tussillo, un panorama che è rimasto immoto dall’aprile 2009, con la caratteristica comune di un silenzio sopranaturale.

Ogni casetta dei M.A.P. di Onna e Villa Sant’Angelo è uguale e diversa allo stesso tempo. Chi la abita ha ricostruito un suo piccolo mondo antico intorno e fuori a un prefabbricato uguale per tutti, colorata metafora di una realtà che non accetta di rassegnarsi. La riconoscenza per il Trentino, in questa parte d’Abruzzo, è palpabile e i ricordi un torrente di emozione che si blocca a fatica. è nelle parole della gente che abbiamo incontrato più che nella tempestività dell’intervento e nella perfezione delle costruzioni realizzate che abbiamo trovato il vero senso dell’orgoglio che ci era stato raccontato. L’esperienza di Protezione Civile che nella storia della nostra Autonomia ha assunto un ruolo protagonista fino a rappresentarne un tratto costitutivo e identitario tra i più forti e caratteristici.

Un volontariato che è diventato crocevia obbligato per la crescita e l’educazione di un’intera comunità. Un patrimonio umano e collettivo che nel tempo ha imparato ad esprimersi al meglio, in modo autonomo, organizzato, efficiente ed integrato in un sistema di Protezione civile che è rara forma di vera e profonda cittadinanza attiva. Una solidarietà condivisa che è forza di debolezze e forze che si fondono insieme. Un vero senso di responsabilità che sa unire il dovere di fare le cose alla necessità di farle bene. Questo orgoglio l’abbiamo capito. Questo orgoglio, adesso, è un poco anche nostro”. _ Piero Cavagna

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Onna ottobre 2012

Ignazio Silone, un grande della letteratura italiana del 1900 (e vanto del suo Abruzzo) nel terremoto di Avezzano del gennaio del 1915 perse quasi tutta la sua famiglia. Anni dopo, parlando di quella tragedia, scrisse una frase passata alla storia e che è di una graffiante attualità: il post terremoto fa più danni del terremoto stesso. Una riflessione amara che disegna un quadro di ruberie, furbizie, speculazioni, indifferenza per il dolore altrui, scarso senso della comunità. Un quadro dove però a volte spuntano delle luci positive. Il mio paese Onna, di queste luci ne ha viste molte. La Provincia autonoma di Trento, la Croce Rossa Italiana e internazionale, l’ambasciata tedesca in Italia, decine di enti, associazioni, privati, hanno dimostrato che a fianco a una Italia becera e profittatrice c’è un mondo fatto di persone per bene che aiutano senza pretendere nulla in cambio, ascoltano (dote ormai rara), consolano, offrono progetti e aiuti concreti.

Il terremoto dell’Aquila del 2009 è come una moneta a due facce, uno specchio fin troppo fedele di una società che corre su binari che perseguono mete e obiettivi diversi. All’alba del sei aprile del 2009 io assomigliavo molto alla mia città e al mio paese. Addosso avevo la polvere della morte; nelle orecchie il silenzio fragoroso di un borgo crollato, il fruscio penoso di corpi strappati alle pietre, il cinguettio solare di uccelli in festa; negli occhi il grande monte tracciato dall’ultima neve, il verde intenso di alberi che assaporavano la primavera, il pianto sordo di una umanità dolente.

Nel cuore il vuoto con dentro la mia famiglia svanita: Domenico e Maria Paola già volavano verso l’infinito, mio padre – che per una vita aveva cercato il meglio per tutti noi – trascinato e ucciso dalla furia devastatrice. Mia madre viva ma per ore sotto i resti della casa di cui era stata regina. Per L’Aquila parlavano i numeri: 309 morti, migliaia di feriti, 100.000 persone sfollate, centro storico piegato, precipitato, spezzato. E inoltre 120 tendopoli, aquilani dispersi in decine di alberghi sulla costa abruzzese, scuole da ricostruire, università da rianimare, strade da rifare. Un popolo in pena che all’improvviso aveva perso identità, cancellato la propria storia, ridotto a vagare in cerca di un rifugio. Poi i primi interventi coordinati dalla Protezione civile: 19 nuove aree residenziali messe a corollario della città, scuole nuove grazie ai musp (i moduli provvisori) e poi i map, le casette provvisorie. Onna, meglio, gli onnesi, in quelle settimane di sconcerto e dolore trovarono un barlume di lucidità per gridare al mondo che la comunità non doveva essere dispersa, che se il terremoto aveva cancellato il borgo gli uomini non potevano mettere i sigilli a una vicenda umana quasi millenaria: lo dovevamo ai nostri antenati, ai nostri nonni e ai nostri padri ma soprattutto ai 40 che quella notte di tregenda ci avevano salutato per sempre.

L’emergenza è costata allo Stato oltre un miliardo di euro. Per il nuovo villaggio di Onna la Croce Rossa ha messo a disposizione più di 5 milioni per 47 strutture con due alloggi ogni map, di misure diverse, a seconda del numero dei componenti della famiglia. Le case inagibili divise in A, B, C, E, a seconda della gravità del danno erano decine di migliaia. Gli edifici A (quelli con danni quasi inesistenti) hanno avuto tutti il contributo massimo di 10.000 euro. Le abitazioni B (danni importanti ma non strutturali) sono state quasi tutte risistemate. Sono partiti anche parecchi cantieri per le E (case crollate o con gravi danni strutturali). Fino a oggi per tutte le tipologie di cui sopra sono stati già spesi circa tre miliardi di euro. Ma il grosso è ancora da fare e il grosso è nei centri storici. Si calcola che saranno da riparare fra L’Aquila e i Comuni del cratere quasi 30.000 abitazioni per una spesa che si aggira fra i 10 e i 15 miliardi ma è certo che ce ne vorranno di più. Per non parlare dei monumenti e dei cosiddetti sottoservizi (reti idriche, elettriche, del gas). A oggi, primi di ottobre del 2012, non ci sono più fondi per la ricostruzione e il governo si è impegnato a stanziare almeno altri due miliardi a breve.

In questo quadro vanno purtroppo inseriti tanti profittatori (recenti inchieste della magistratura stanno dimostrando che la gran parte sono aquilani), personaggi legati alle mafie che stanno cercando di scavare nella montagna di soldi in arrivo, burocrati che per mestiere ritardano e complicano tutto. Anche le parti in politica (a tutti i livelli) ci hanno messo del proprio facendosi dispettucci per banali convenienze elettorali che sono costati mesi e mesi di ritardo nell’avvio concreto della ricostruzione. Oggi L’Aquila è una città disillusa, incapace di guardare al di là delle proprie mura (un difetto storico), attenta a ricostituire le avite rendite parassitarie, disinteressata al futuro delle nuove generazioni. Il lavoro, che già non c’era prima del sei aprile 2009, oggi è sempre più una chimera. Molti stanno lasciando L’Aquila anche se il fenomeno per fortuna non è massiccio.

A me restano i sensi di colpa: per non essere riuscito a proteggere i miei figli, per non aver dato loro la possibilità di continuare a sognare il futuro, per aver amato troppo quelle pietre che poi mi hanno tradito, per aver progettato una vita che ho dovuto buttare in quel vuoto che si è aperto una notte d’aprile. Resta la voglia di vedere ricostruita la mia città, di lottare fin dove sarà possibile, di dare un piccolo contributo alla rinascita. Poi potrò andarmene per cercare in chissà quali altri mondi le tracce dei miei due _ Giustino Parisse