GIOVANNI RUBINO

GIOVANNI RUBINO

PORTRAITS

“ Io per militanza politica ho sempre fatto l’ipotesi di fare un’arte che avesse un rapporto con i nuovi referenti, che fosse un’arte di classe insomma ecco perché non mi sono mai trovato d’accordo con le mostre dove veniva un critico a mettere un cappello sulle cose.

Io ero in Potere operaio, poi naturalmente c’era Porto Marghera e Autonomia operaia con Toni Negri quindi io cercai di saldare la mia militanza politica  anche con una pratica di artista militante. Sulla nocività, sull’ecologia del tempo che era un fatto politico, facemmo quel lavoro Mortedison a Marghera che avveniva come progetto presentato alla galleria Apollinaire allora importante, che ha portato in Italia Christo e il Nouveau Réalisme per esempio, e poi si realizzava con i miei compagni giù al Petrolchimico di Marghera e per questo era un’operazione esemplare che Lea Vergine segnalò su alcune riviste internazionali. A me servì come esperienza verificata per premere sulla gallerista Gigliola Rovasino, che era la mia donna:  lei vendeva grafica in auge, grafica d’arte poi assieme a un altro carissimo amico uomo di grande intelligenza, un avvocato Corrado Costa ottimo artista e appassionato di pittura, avevamo un grande feeling con lui, si è creato questo gruppo di persone. Io ero la spinta militante ideologica, lei, la gallerista, una compagna, decise di mettere a disposizione la Galleria di Porta Ticinese e Corrado era la testa. Nel 1973 ideammo la Mostra incessante per il Cile perché c’era stato il golpe di stato. Cosa potevano fare gli artisti e gli intellettuali? Cercare nel loro campo di dimostrare una solidarietà attraverso l’arte, una coscienza di quella cosa lì. Corrado,  molto bravo ideò questo titolo interessantissimo che ebbe molta fortuna, mostra incessante, perché sarebbe durata finche c’era Pinochet. Facevamo mostre ogni 15 giorni a tamburo battente. Senza una lira lei andava a vender grafiche in giro per l’Italia e la galleria senza guadagnare faceva questa mostra. Io ero anche grafico e organizzatore, facevamo dei volantini non potevamo fare i cataloghi.

La concludemmo dopo qualche anno nel 1977 alla Rotonda della Besana che era uno spazio importante anche se politicamente ce l’hanno ostacolata alla fine riuscimmo a spuntarla, ce l’abbiamo fatta.

Quindi sono state tre persone che hanno agitato quelle stagioni artistiche milanesi con questa galleria, con il mio esempio precedente di un certo tipo di lavoro che fondeva la ricerca avanzata, cioè non facevamo i quadri con le bandiere rosse, con il cambiamento del referente, non era più il borghese ma l’operaio. Quello che tanti anni prima aveva fatto la politica culturale del pc con Guttuso che aveva detto: “C’è un protagonista che è lo zolfataro, il contadino” riproponendo quello che aveva fatto il realismo francese con Courbet ed altri. Io mi mettevo in relazione con quelli di una classe che credevo fosse protagonista della storia e nella quale mi rivedevo come militante. Quella mostra si concluse però che pregio ebbe? Che per alcuni anni tutti gli artisti sensibili volevano fare la mostra perché era una patente di militanza. Io volevo anche contaminare la ricerca degli artisti per cui l’ipotesi di questa mostra fu che oltre al tema politico si sviluppasse anche il tema figurativo di un pittore che al suo tempo, nell’ 800 era un socialista fabiano inglese e si era dedicato come pittore alla causa infatti tutte le sue rappresentazioni del socialismo utopico allora si chiamavano Cartoni animati per la causa, Walter Crane, pittore che allo stesso tempo fu iniziatore del fumetto. Insomma c’è sempre stato qualcuno che ha detto: “Facciamo un’arte che non sia per la borghesia o per il mercato con la coscienza dei mezzi e della qualità dell’arte”. Tu puoi anche vendere o non vendere ma hai un referente che non è più quello borghese ma è un’altra realtà e tu ne tieni conto, fondendo nel tuo lavoro un’utilità di classe.

La galleria faceva il lavoro nel campo specifico cioè faceva le mostre con gli artisti sensibili. Una proposta iniziale era dire tutti gli artisti si rifanno alle immagini di Crane sul socialismo. Il risultato fu duplice: alcuni dicevano mi rifaccio al tema e lo reinterpretavano, altri dicevano no io faccio la mia ricerca e reputo che già sia progressista. Quindi alcuni non toccarono il loro discorso altri invece lo combinarono con il tema e si andò avanti cosi per alcuni anni. Poi la galleria ha continuato perché nel frattempo mentre all’inizio Gigliola manteneva la galleria facendo il lavoro che faceva io davo il mio contributo gratuitamente ma non ci si poteva mantenere, decidemmo di quotarci per mantenere le spese, l’affitto etc.

A quel punto, iniziarono a sentire il bisogno di parlare di altri temi come la libertà degli artisti quindi quel tema si concluse, quello più ideologico,  e si aprirono altri cicli di mostre basati sulla collegialità, non più sulla direttività mia ma delle assemblee che si facevano. Fu una pratica molto bella, gli artisti si riunivano per individuare tematiche, per elaborare la situazione, fu quindi una forma di autonomia degli artisti che elaborarono una cultura e non seguirono delle tendenze.

La conseguenza fu che la galleria lavorava nella galleria ma a questo punto bisognava articolare un gruppo che lavorasse sul territorio al servizio del movimento e quindi sull’esperienza fatta a Marghera e sulla sensibilità di alcuni artisti organizzammo un collettivo, Collettivo di Porta Ticinese, chi ha bisogno venga da noi, come pure andavamo nella provincia a realizzare e fare interventi, eravamo una forma di Brigata Neruda, a disposizione di tutti i gruppi politici. Allora chi ne approfittava di più era Lotta continua che aveva capito l’utilità di questo anche perché altri gruppi come Avanguardia operaia avevano già all’interno un gruppo di grafici. Fummo chiamati a fare striscioni e manifesti per grosse manifestazioni politiche e la prima, la nascita del collettivo, fu in Piazza Duomo mi pare nel ‘74 con una grande manifestazione per il Cile e facemmo una cosa molto semplice però spettacolare, in piazza realizzammo un murales che fu portato in manifestazione.

Finché c’è una sperequazione tra capitale e lavoro o finché esiste la povertà per esempio, bisogna sempre pensare a una giustizia sociale e il proprio pensiero incanalarlo nell’arte. La mia poeticità sta nel fatto che provo profondamente ad intervenire in cose in cui sono sollecitato dal mio intimo. 
E’ un lavoro che va avanti e ha tutto un suo divenire quindi sono sempre andato avanti tranquillo. Tutti, molti dicono che l’epoca è finita. Io questo non lo posso dire, vado avanti perché mi scatta proprio l’ispirazione quando vivo questi tipi di realtà che stimolano cioè la mia capacita creativa che, a parte dei momenti più intimi eminentemente pittorici, da anni cavalco con mezzi che vanno dai tecnologici a quelli figurativi.” _ Claudia Avventi