CARLO LIZZANI

CARLO LIZZANI

PORTRAITS

Mi parli di lei e della sua esperienza di partigiano

Sono nato il 3 aprile 1922. Ho fatto il partigiano a Roma, dove ero in contatto, già dalla fine del ’42, con alcuni esponenti del partito comunista clandestino e in modo particolare con Valentino Gerratana, a cui ero arrivato attraverso Dario e Gianni Puccini. I quali mi avevano suggerito delle letture che in seguito mi orientarono verso l’antifascismo e il marxismo. Ingenuamente io pensavo che il mio primo contatto con un clandestino comunista fosse con un operaio, e invece mi trovai  di fronte un assistente universitario, poco più anziano di me, un tipo magro con gli occhiali. Ciò mi deluse un pò, ma poi mi risi conto di essere venuto a contatto con le strutture di una organizzazione clandestina considerata da tutti la più seria, perfino dal fascismo. Mi si affidò il compito di avvicinare altri giovani che, per il loro atteggiamento di fronda anche all’interno del Guf (Gruppo universitario fascista), sembravano manifestare una qualche inquietudine, una qualche scontentezza rispetto alla politica fascista, alla guerra e a tutti quei fenomeni repressivi contro gli oppositori. Il mio compito era quello di procurare loro alcuni libri. Un libro fondamentale a quel tempo era uno studio di Antonio Labriola sul materialismo storico, che aveva in appendice addirittura il manifesto di Marx. E poi via via libri ancora più specifici, tra cui uno in particolare di Lenin che l’ho spesso citato che cito negli anni del terrorismo, dal titolo ‘L’estremismo, malattia infantile del comunismo’. Dopo il 25 luglio, con la sfiducia del Gran Consiglio del fascismo e il conseguente arresto di Mussolini, la mia casa diventò un punto di riferimento per molti giovani, e per non allarmare mio padre dicevo che si trattava di assistenti universitari. Le riunioni si tenevano in una stanza dove io non potevo entrare perché segrete. A queste riunioni partecipavano Antonello Trombadori, Fabrizio Onofri e altri quadri del partito comunista clandestino. Ricordo l’arrivo, un giorno, di Giorgio Amendola, con la sua figura imponente, e a mio padre lo presentai come di un produttore cinematografico.

Dopo l’8 settembre, con l’occupazione di Roma dei tedeschi, mi fu dato l’incarico di costituire l’USI (Unione Studenti Italiani), un’organizzazione interpartitica, di cui io ero il rappresentante comunista, e nella quale convergevano anche giovani dirigenti del partito d’azione, dei repubblicani, dei socialisti. Questa organizzazione promosse agitazioni e scioperi studenteschi, in seguito ai quali avvenne la chiusura di molti licei e addirittura dell’università di Roma. Di questi fatti ne parlò perfino Radio Londra.

Quindi la mia Resistenza non fu una Resistenza armata, bensì rivolta a svolgere attività politica e questo fino alla liberazione di Roma, il 4 giugno del ‘44.

Ha continuato poi il suo impegno politico, in prima persona?

Per un pò ho vagheggiato un approdo al lavoro politico vero e proprio, ma il modo di lavorare di Enrico Berlinguer e di altri giovani mi fece capire che per fare politica ci voleva pazienza e costanza, doti di cui io forse non ero provvisto. La mia propensione più che altro era per un lavoro di carattere artistico, come il cinema. Quando Giuseppe De Santis e Gianni Puccini mi invitarono a Milano per fondare il settimanale ‘Film d’oggi’, io accettai subito, perché questa città era considerata la nuova capitale d’Italia sia per il suo trascorso resistenziale che per la sua forza economica. A Milano ci fu un incontro con un grande personaggio della Resistenza, Giorgio Aliani, che era stato vice comandante delle Brigate Garibaldi del Nord. Egli aveva la passione del cinema, e sognava di realizzare un film sulla Resistenza del nord d’Italia. Il progetto si concretizzò più tardi con il film intitolato “Il sole sorge ancora”, diretto da Aldo Vergano, regista e uomo di provata fede antifascista. Nel film ebbi un piccolo ruolo come attore, interpretando un giovane prete che viene fucilato dai nazisti.

Dopo varie esperienze fatte come collaboratore di Giuseppe De Santis nei films ‘Caccia tragica’ e ‘Riso Amaro’, di Roberto Rossellini in ‘Germania anno zero’ e di Lattuada nel ‘Il molino del Po’, realizzai, nel 1951, il mio primo film ‘Aktung Banditi’.

Poi seguirono altri films…

Sì, e possono essere tutti comunque definiti films sulla Resistenza, realizzati con un’ottica critica, in quanto hanno avuto il coraggio di evidenziare anche alcuni aspetti devianti della Resistenza, come nel film ‘Il Gobbo del Quarticciolo’, dove il protagonista è un giovane diseredato che nella Roma occupata prende le armi contro i tedeschi e, a liberazione avvenuta, contro gli americani, diventando un bandito.

Poi ‘L’oro di Roma’, sull’inganno di cui si rese responsabile il maggiore Kappler ai danni degli ebrei romani (16 ottobre del 1943), ‘Il processo di Verona’, ‘Mussolini ultimo atto’, nei quali viene analizzata l’agonia del regime fascista attraverso i suoi personaggi più significativi.

Quindi per la televisione ho girato il film ‘Maria Josè: l’ultima regina’, con il quale viene messo in risalto il tentativo vagheggiato della regina  di coinvolgere re Umberto e farlo diventare capo della Resistenza, così come avvenne in Francia con De Gaulle. Oggi probabilmente avremmo ancora la monarchia, se casa Savoia avesse ascoltato Maria Josè. Forse è stato meglio così, come poi è andata.

Come si pongono le sue opere con il neorealismo?

Credo siano in piena concordanza con il neorealismo, intendendo per neorealismo quel movimento che non solo ha rivalutato i contenuti, ma ha anche cambiato il linguaggio. Questo linguaggio nuovo è stato il propellente che ha permesso poi a questi contenuti di essere conosciuti all’estero. Se il neorealismo si fosse limitato soltanto ad un elenco di sciagure, di miseria, di stragi, di disoccupati e di atti di resistenza, non avrebbe avuto la forza che ha avuto, e la critica non si sarebbe occupata.

Nel ’96 ha girato ‘Celluloide’…

Anche ‘Celluloide’, in un certo senso, raccontando come è nato il film‘Roma città aperta’, rievoca il periodo della Resistenza.

Una sua riflessione sulla Resistenza, un articolato insieme di microstorie con eroi, spie e drammi.

Ecco il fatto che la Resistenza sia un insieme di microstorie, fa dire quanto è stato diffuso il movimento di opposizione al fascismo. Non voglio arrivare a dire che è stato un movimento di massa come in Yugoslavia, anche perché per diventare tale sarebbero serviti molti anni, e questo per fortuna non è accaduto in Italia. Dall’8 settembre passarono solo due anni e, nell’arco di due anni, non si crea un movimento di popolo vasto e profondo.  Il fatto però che ci siano stati una miriade di avvenimenti, fa pensare che questo movimento possa essere e debba essere considerato un movimento a livello nazionale, funzionale alla formazione di un Paese nuovo. Un movimento quindi che fa sì che l’Italia, nell’immediato dopoguerra, possa avere un ruolo, pur se da nazione sconfitta, ugualmente degno di rispetto, offrendo al mondo intero un volto diverso, cioè quello di un popolo che si era riscattato combattendo contro il fascismo per la democrazia.

Questa particolarità di microstorie è poi quella che non offre una storia lineare alla Resistenza.

Certo, è una storia evidentemente con degli disequilibri, con zone dove la Resistenza è stata molto forte, zone dove è stata quasi assente, come il Mezzogiorno, il quale però con le 4 giornate di Napoli ha dato un contributo significativo e di grande valore ideale alla Resistenza.

Che ne pensa del revisionismo e del fatto che i morti sono tutti uguali?

Si, i morti sono tutti uguali, ma non i vivi.

Quando migliaia di vivi sono in lotta tra loro, lì bisogna distinguere.

Dintinguere tra coloro che hanno scelto la lotta per la democrazia e chi invece non ha scelto e ha continuato a combattere, sostenendo la dittatura.

Un suo pensiero sul libro di Panza

Secondo me, Panza, ha fatto il suo lavoro di storico. Credo che anche il lavoro dello storico debba avere un suo equilibrio, e quindi ogni pagina, ogni capitolo, avrebbe dovuto far ricordare quanto l’Italia ha sofferto sotto il fascismo. Questo non per giustificare le vendette private, ma è chiaro che quando una dittatura porta un Paese alla catastrofe, è possibile che avvengano fenomeni degenerativi. Questi, però, vanno studiati e raccontati, tenendo sempre presenti le cause che li hanno prodotti.

Qual’è la colpa più grave?

É quella di tutti coloro che hanno portato un popolo a dividersi e a odiarsi._Giulio Malfer