o’ zulù

o’ zulù

PORTRAITS

Luca Persico in arte O Zulù presenta insieme a Rosario dello Jacovo, il libro della band 99 Posse. Interessante è la premessa che O Zulù fa, raccontando a braccio il suo vissuto che ha poi portato alla costituzione della band, gli scazzi degli anni ottanta, la scuola secondaria, il movimento Pantera, le prime esperienze per trovare una sede al centro sociale occupato che poi si chiamerà Officine 99. il Racconto è lasciato un po’ sgrammaticato non intervenendo a correggerlo in sede di trascrizione, perché proprio da quelle incertezze fuoriesce tutta la sua spontaneità._Giulio Malfer.

La scuola è stato il primo posto dove ho scoperto la storia, quindi ho potuto imparare a studiare. La scuola per me ha infatti avuto un ruolo fondamentale per la mia cultura.

D’altronde è stato anche il culo di aver trovato una professoressa di storia in grado di farti innamorare della materia.

Però ‘esperienza più importante che ho fatto è stato il dibattito.

Sono entrato nelle scuole superiori nell’ottantaquattro per cui c’erano ancora freschissimi i retaggi degli anni settanta. A scuola quando entravi alle superiori potevi scegliere se militare tra i giovani del partito comunista, o quelli di democrazia proletaria o quelli dell’autonomia operaia, lotta continua o gli anarchici.

E questo era solo a sinistra, senza considerare le scelte di rampantismo e di menefreghismo che cominciavano ad alleggiare nell’aria proprio in quegli anni.

Gli anni mirabolanti, gli anni ottanta, da bere e gustare, sfociati poi con il berlusconismo qualche decennio dopo. Il decennio in mezzo tra il berlusconismo dilagante e gli anni ottanta è il decennio dove siamo prosperati noi.

Tutto questo è avvenuto grazie ai collettivi. Noi che negli anni settanta eravamo bambini respiravamo però in famiglia e anche nelle strade un’aria promettente, un’aria di rivoluzione totale, quell’aria che senti prima di un grossissimo e profondissimo cambiamento di clima, e il grossissimo, profondissimo cambiamento di clima in realtà c’è stato, ma è stato esattamente l’opposto di quello che noi tutti ci aspettavamo.

Quel fermento che iniziato sul finire degli anni sessanta è finito proprio nei primi tre quattro anni dell’ottanta.

Quindi noi adolescenti, in questi anni ottanta eravamo prima di tutto delusi, poi anche spiazzati.

Non sapevamo bene come collocarci nella società dell’edonismo, essendo cresciuti con il mito dell’anti-edonismo.

Non sapevamo che farcene del mito del successo perché noi immaginavamo una società dove tutti quanti avessero una loro collocazione, un loro ruolo, una loro dignità e non ci interessava primeggiare sugli altri, non ci interessava la competizione, la competitività.

Noi ragazzini di dodici sedici anni, in quegli anni se non ci fosse stata la scuola saremmo impazziti, saremmo andati a ricoverarci in una clinica dicendo al dottore, dottore vedete e io so’ pazzo, qua stanno tutti gli altri andando in una direzione e io vado in un’altra.

Invece aver avuto l’opportunità, attraverso la scuola, di conoscere altri compagni che come noi non solo vivevano quella grossa delusione, ma cercavano anche di costruire, quanto meno, le condizioni, le fondamenta perché qualcosa cambiasse, questo ci ha dato la forza e la coesione per affrontare tutti gli anni ottanta.

Io la coesione l’ho trovata nei collettivi politici e ognuno di noi ha fatto questa sorte di resistenza nella musica, nel punk come nell’arte … Per esempio io che ero più metal e, ai punk gli avrei dovuto schifare però io il punk l’ascoltavo ma i punk gli schifavo proprio. Insieme ai punk anarchici c’erano anche moltitudini di cani con annessi i loro punk abbestia, perché è il contrario, la gente pensa che è il punk abbestia che ha i cani e invece no, sono i cani, ogni gruppo di cinque cani ha il suo punk abbestia.

Comunque a metà degli anni ottanta ero appena fuori uscito da democrazia proletaria, dove facevo il dj alla radio città futura, giravo in cerca di identità, sapevo che in una scuola di fuorigrotta si incontravano questi autonomi. Gli vado a conoscere ci incazziamo subito sulla questione della violenza, perché io ancora credevo che ci potesse essere una strada non violenta, loro invece volevano risolvere immediatamente, tipo c’è un giornalista pestiamolo, no scusate, prima parliamo e poi eventualmente se risponde male può succedere… Ecco su questo avevamo dei dissidi però eravamo comunque una cosa molto embrionale nella ricerca dell’identità e ci andammo a buttare dentro a questo centro sociale. Organizzammo un’iniziativa contro la craxi-russo-iervolino che era la legge sulle tossico-dipendenze. Era la prima volta che si accomunava uno spacciatore a un consumatore e poi una sostanza a un’altra qualsiasi, senza distinguere tra leggera e pesante, con la conseguenza di dire siete tutti drogati e spacciatori.

Poi l’università, e là cambiò tutto. Mi sono inscritto nell’ottantanove e nemmeno due mesi dopo, per cui non faccio in tempo neanche a capire dove sono le aule per le lezioni, scoppia il movimento della pantera.

Per cui ho vissuto l’università come aver trovato casa a napoli, io abitavo in provincia. Mi sono proprio trasferito, mi sono portato pure il giradischi e il mixerino che tenevo come retaggio della mia carriera di dj. Così durante l’occupazione mi sono inventato radio facoltà occupata, che era una radio nel senso che trasmetteva ventiquattro ore su ventiquattro, ma in realtà non trasmetteva, semplicemente cacciava la musica dagli altoparlanti che erano posti però al di fuori della stanza dove io selezionavo la musica. Davano su un ballatoio di un cortile del seicento che era la nostra facoltà di lettere e filosofia. Per cui con l’amplificazione naturale delle volte e del cortile aperto, in realtà la mia musica arrivava fino ai palazzi a fianco e oltre l’università.

E così attraverso questo strumento abbiamo per la prima volta catalizzato l’attenzione della gente non già e non solo attraverso le parole ma anche attraverso la musica.

Poi la fine della pantera ha rappresentato per noi un altro momento di smarrimento perché durante la pantera avevamo tutti quanti provato per la prima volta, un’esperienza, lontanamente forse paragonabile, a quella che avevamo solo annusato nell’aria negli anni settanta.

Per la prima volta tutto era collettivo, tutto era di tutti, tutte le decisioni si prendevano insieme, si facevano i turni per qualsiasi cosa, si imparavano milioni di cose ogni dieci minuti. Si incominciò il discorso della comunicazione, perché quel movimento fu definito il movimento dei fax, perché, immaginate un po’, eravamo in grado di comunicare con Palermo mandandoci un fax, che a quell’epoca questa era una rivoluzione.

E quando perdemmo la battaglia della pantera non fummo disposti a tornare indietro, non fummo capaci di tornarcene a casa e dire, ok abbiamo perso e adesso ci rimbocchiamo le maniche e ci facciamo i nostri cinque anni di università, ci ricollochiamo un’altra volta.

Ci mancava troppo tutto quello che avevamo vissuto in quei tre-quattro mesi in cui eravamo diventati un’altra cosa. E quest’altra cosa ce la siamo portata fuori dall’università e abbiamo formato il primo collettivo che è andato alla ricerca di un posto in città da occupare e da trasformare in un’occupazione che potesse durare per tutta la vita e non solo i tempi necessari a vincere o perdere una battaglia universitaria.

Individuammo prima una villa molto bella di due piani abbandonata da anni in una zona residenziale di napoli. Entrammo tranquilli felicissimi. Io stavo al secondo piano e stavo già ordinando una libreria perché c’era una biblioteca di vecchissimi libri ordinandoli per titolo, mi immaginavo già la futura biblioteca popolare, quando arrivò un tipo senza collo, il fatto che finiva la testa e iniziava il busto si vedeva attraverso una catena d’oro gigantesca che alla quale era legato un ferro di cavallo e questo scende e si presenta sono l’avvocato… L’avvocato del nuovo proprietario della villa e che quindi noi ce ne dovevamo andare. Questo avvocato in realtà aveva molto poco dell’avvocato e soprattutto i guardia spalle che stavano dietro a lui avevano molto poco degli assistenti dell’avvocato, per cui noi ci guardammo in faccia, facemmo un rapido conto delle forze in campo in grado di mettere contro la camorra e decidemmo di abbandonare alla chetichella e molto velocemente non solo lo stabile ma l’intero quartiere.

La seconda occupazione la tentammo di fare a materdei. Individuammo un ex convento, arrivammo  organizzatissimi, per sviare anche la polizia che stava alle nostre calcagne, avevamo già i numeri di telefono degli avvocati… Sfondiamo il portone, ma dopo due secondi si capisce che qualcosa non stava andando nel verso giusto perché il gruppo di avanguardia che era entrato esce con le mani nei capelli chiedendo aiuto. E noi, che è successo? Ci stava una signora di settant’anni per terra che si faceva venire le mosse e gridava è il mio appartamento… La vecchia ha sconfitto l’autonomia operaia e ce ne siamo andati alla chetichella era già lei abusiva. La terza occupazione fu di un ex asilo abbandonato e completamente sgarrupato e pericolante. Era veramente come le carte in comune dicevano non agibile, tanto che un compagno volò dal quarto scalino per fortuna non dal ventesimo della scala che portava al primo piano. Subito dopo ne avemmo conferma perché quando stavamo per uscire abbiamo trovato la polizia, che ci informava, che per la nostra incolumità ci potevano sgomberare quando volevano anche a ripetizione quindici volte al giorno, perché non c’era bisogno dell’ordine di nessun giudice, perché era per la nostra incolumità. Quindi dopo una contrattazione, otteniamo che loro andavano a fare un giro e che non ci identificano. Così mentre loro vanno a farsi questo giro noi prendiamo tutto quello che troviamo di valore,che poi erano dei banchi e delle sedie e usciamo con questi banchi in mano non sapendo bene dove andare, con la polizia che sarebbe tornata dopo un quarto d’ora.

Quindi guardandoci intorno vediamo che a fianco l’ex asilo, eravamo in via gianturco numero 99, al numero 101 c’era un’officina abbandonata che noi precedentemente avevamo scartato perché vista dalle finestre avevamo visto che ci stavano trenta cm di grasso di motori e c’erano delle attrezzature molto grosse e pesanti da spostare. Per cui sarebbe stato faticoso rimettere tutto a posto. E si l’occupazione volevano farla, ma con meno fatica. Comunque a quel punto sfondiamo la porta dell’officina e entriamo.

Per il nome del centro occupato abbiamo pensato nella nostra follia, per segnare la continuità politica del percorso, di cambiare il numero civico di officina dal 101 che è il suo a 99 per dire, noi comunque siamo gli imbecilli che erano entrati nella ex scuola che ci cadeva in testa e ce lo rivendicheremo fino alla morte.

Poi da quel momento è iniziato un nuovo percorso. Infatti quando avevi uno spazio anche i compagni di altre città che avevano uno spazio di guardavano con un’altra faccia. C’avevi più credibilità, c’erano più cose da dire, da confrontarsi e c’erano gli scambi di produzione culturali e quindi ci arrivava materiale da bologna dell’isola del cantiere, da radio onda rossa con dischi.

Incominciammo a partecipare ad iniziative nazionali di quello che era un unico grande e unito movimento extra parlamentare della sinistra che si chiamava coordinamento nazionale antinucleare antimperialista che riuniva quello che oggi sono almeno le tre grosse anime del nostro movimento ai noi tanto diviso.

L’idea di fare anche noi la nostra posse del centro sociale officine 99 è venuta quasi più per motivi goliardici che per motivi politici. Nel senso che, è mai possibile che i milanesi devono tenere un gruppo e noi a napoli non teniamo o gruppo? Un po’ spinti da questa cosa, un po’ spinti dal fatto che veramente ognuno di noi, con ruoli diversi, aveva sopravvissuto negli anni ottanta solo grazie alla musica, per cui ne conoscevamo tutti quanti il valore rivoluzionario. E poi durante l’occupazione avevamo incominciato ad inventarci quelle che oggi sono le feste che si fanno in tutti i centri sociali. Feste dove si passa un altro tipo di musica dove si respira un’altra aria, dove c’è un altro tipo di comunicazione, per cui il passo è stato brevissimo.

Ci siamo chiusi nella cucina di officine e abbiamo scritto le prime due canzoni rubandole praticamente a macKa B che è un toaster giamaicano, che all’epoca aveva fatto un disco che si chiamava, non mi ricordo più, ma dentro al quale c’era una canzone che si chiamava, coconut noce di cocco. Il senso della canzone era dedicata a quei neri giamaicani che vanno in america a cercare fortuna, la fanno e quando tornano in giamaica fingono di non capire più il patois, il dialetto giamaicano, ti parlano in inglese perfetto ti fanno gli schizzinosi, ecco lui gli chiamava le noci di cocco, siete rimasti neri fuori ma dentro siete diventati bianchi, questo era il senso della canzone e noi l’abbiamo copiata praticamente facendo rafaniello, sei rosso fuori e bianco dentro. Ma se avessimo fatto solo questo si potrebbe parlare di un confronto artistico, però se io ti canto il ritornello di coconut voi capite che siamo andati un po’ oltre, praticamente uguale! Tutta copiata.

E là è iniziato un viaggio che ancora oggi dura._Luca Persico, O Zulù.